IL PRIMO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA
Argomenti della lezione:
- Definizione di sistema termodinamico
- Primo principio della termodinamica
- Esperienza di Joule
- Regola delle fasi
- Definizione di calore specifico
- Entalpia
Definizione di sistema termodinamico
La termodinamica moderna nasce nel corso del XIX secolo, quando diversi ricercatori in tutto il mondo si rendono conto che il calore non è, come fino ad allora si è creduto, una sostanza materiale ( il "calorico") che passa da un corpo all’altro provocando la sensazione termica, bensì una delle forme con cui l’energia viene scambiata tra un sistema e l’ambiente quando questi si trovano a temperature diverse; in tutti gli altri casi si parla di scambio sotto forma di lavoro.
Queste due specie di energia possono convertirsi l’una nell’altra secondo la formula sperimentale nota come Equivalente meccanico del calore, la quale afferma che per innalzare di un grado centigrado ( da 14,5°C a 15,5°C ) la temperatura di un chilogrammo d’acqua, occorrono sempre 4.186 Joule di lavoro, che equivale ad una quantità di calore definita come caloria. Sorge ora la questione di definire esattamente cosa si intenda per sistema termodinamico, e questo punto, che potrebbe sembrare banale, è in realtà la chiave per risolvere i problemi sugli scambi di energia che ci si trova ad affrontare. Basti riflettere sul fatto che si danno due differenti definizioni di sistemi termodinamici e che suddividono questi in due classi:
1)Sistema aperto: é una regione di spazio localizzata da una ben determinata superficie , che resta inalterata nel tempo. La quantità di materia all’interno ha, al contrario, possibilità di variare. Un esempio di questo tipo è un condotto per il trasporto dei fluidi .
2)Sistema chiuso: è identificato con una quantità di materia ben definita, che può cambiare forma nello spazio e nel tempo; la superficie che la delimita è, quindi, deformabile. Un gas in un cilindro sigillato e racchiuso da uno stantuffo è, ad esempio, un sistema chiuso.
Queste definizioni, per quanto generali, introducono un grosso scoglio nel processo di astrazione, in quanto escludono una ampia varietà di oggetti del mondo fisico, come, ad esempio, il motore a scoppio, che non è associabile ne ad una quantità di materia, ne ad una regione di spazio ben definite.
Una volta determinati i confini del sistema, ciò che resta fuori è chiamato ambiente e l’unione del sistema e dell’ambiente è l’Universo; il confine che separa le due parti dell’Universo può avere delle sezioni attraverso cui scambiare energia come calore o lavoro e, se ne è privo, il sistema si dice isolato. E’ chiaro che l’Universo, per definizione, è un sistema isolato, e quindi si deduce che la energia in esso racchiusa deve avere un valore costante nel tempo. Questo è il succo del prossimo capitolo.
Primo principio della termodinamica
Stabiliamo, ora, una convenzione sulle grandezze termodinamiche coinvolte nella definizione del primo principio. Dato un sistema che racchiuda all’interno una certa quantità di energia non negativa E, chiamiamo Q la quantità di calore scambiata tra il sistema e l’ambiente e assumiamo che essa sia positiva se è entrante , negativa se uscente ; L è, invece, il lavoro compiuto dal sistema ed ha una regola dei segni opposta a quella di Q. Le grandezze sopracitate, come si noterà, non fanno riferimento a valori assoluti, bensì a variazioni delle stesse in due differenti istanti di osservazione t1 e t2, che delimitano la nostra trasformazione e che corrispondono a due diversi stati, senza tenere conto delle situazioni intermedie. Avendo definito queste convenzioni, possiamo enunciare la forma analitica del primo principio della termodinamica:
Questa equazione non deriva da considerazioni logico-deduttive, bensì da una accurata osservazione del mondo fenomenico e riflessione da parte di grandi ricercatori, quali E.Thompson (1753-1814), Hermann von Helmotz (1821-1894), James Prescott Joule (1818-1889) di cui riparleremo; non essendo mai stata smentita, essa ha valore di principio fisico assunto come vero, anche se in realtà, sembra fallire in occasione di reazioni nucleari, quando una certa quantità di calore sembra nascere dal nulla e, nel contempo, sparisce un corrispondente valore di massa di fissibile. Il postulato resta, però, valido grazie alla Teoria della Relatività Speciale di A.Einstein (1879-1955) , la quale stabilisce l’equivalenza tra massa ed energia ed estende il principio di conservazione a quello di massa ed energia contemporaneamente.
Tornando ad occuparci dell’ enunciato, possiamo fare un ulteriore precisazione:
se consideriamo la grandezza E nei due istanti come somma dei contributi dell’energia cinetica Ec, di quella potenziale Ep e dell‘energia interna U (comprensiva delle altre specie), osserviamo che, in un sistema in quiete, le prime due sono trascurabili rispetto alla terza, e quindi possiamo scrivere l’enunciato nella forma:
Altro modo di scrivere il postulato è utilizzando le grandezze specifiche, cioè quelle che si ottengono dal rapporto con la massa M del sistema.
Nel nostro caso abbiamo
Scriviamo allora:
Questa notazione vale, comunque, per quelle grandezze che si riferiscono a proprietà riconducibili ad una frazione della massa del sistema e che si chiamano estensive (es. volume, energia interna), mentre non si può usare per le grandezze riferite alla globalità e dette intensive (pressione, temperatura). La traduzione dalle prime alle seconde avviene proprio mediante l’uso di grandezze specifiche, che pertanto prende anche il nome di forma intensiva.
Esperienza di Joule
James P. Joule, gestore di una birreria londinese del XIX secolo, è, forse, il più celebre ricercatore nel campo del moderno studio del calore. Del primo principio della termodinamica, che all’epoca non era così evidente come oggi, egli fu un tenace assertore e, oltre a dimostrare l’equivalente meccanico del calore, eseguì una serie di esperimenti, noti come esperienza di Joule, tesi a verificare l’esatto comportamento delle grandezze U, Q ed L al variare del processo di trasformazione.
Egli fece compiere ad un gas diverse fasi di compressione ed espansione, ogni volta seguendo percorsi differenti del grafico volume- pressione e mantenendo fissati i punti di partenza e arrivo.
Cosa trovò?
I risultati di questi esperimenti mostrarono che il lavoro L e il calore scambiato Q dipendevano dal tipo di trasformazione compiuta, e quindi caratteristici del processo, mentre la differenza Q - L ( e quindi l’energia interna U) risultava esserne indipendente e legata soltanto alla posizione dei punti estremi nel piano (V, P).
Nacque, così, il concetto di funzione di stato, ossia , come dice il nome, una variabile fisica riferita ad un sistema termodinamico, che dipenda solo dall’insieme dei valori delle coordinate termodinamiche (pressione, volume, temperatura, titolo, ecc.) che definiscono uno stato nei punti estremi della trasformazione.
Le funzioni di stato, quindi, sono utili nel dirci cosa è cambiato tra il "prima" e il "dopo" del processo, senza occuparsi del "durante", che potrebbe essere anche indefinito (processo non all’equilibrio); è chiaro, allora, che sono significative le differenze tra i loro valori, anziché quelli assoluti nei due istanti. Per accontentare i filosofi, diremo che abbiamo così ottenuto una classe di variabili che non sono schiave della storia "vissuta" del nostro sistema, ma solo del presente.
Regola delle fasi
Come facciamo a conoscere quante variabili di stato considerare per caratterizzare completamente lo stato del sistema, vista l’ampia varietà dei processi possibili ? A questa domanda ha risposto il ricercatore americano Joseph Willard Gibbs con la famosa formula che prende il suo nome. Chiamata varianza V, il numero delle variabili di stato necessarie, C quello dei componenti chimici coinvolti, F quello delle fasi presenti (solido, liquido o gas), abbiamo che:
C’è, però, da fare una precisazione. Considerando, ad esempio, il caso del ghiaccio fondente, abbiamo che C= 1, F=2 e quindi V= 1, però io non so nulla sul titolo, cioè sulla composizione della miscela acqua-ghiaccio in un certo istante, quindi mi occorre una variabile in più; è vero, d’altro canto, che la pressione e la temperatura non sono più indipendenti, come si evince dalle curve di Andrews. Si vede, allora, che, in realtà, la varianza V corrisponde al numero di gradi di libertà termodinamici, cioè quello delle variabili che possono variare indipendentemente senza che spariscano o compaiano delle nuove fasi. Al punto triplo dell’acqua, ad esempio, sono presenti 3 fasi (F = 3)e una specie chimica (C=1), quindi V = 0, e, in effetti, tutte le grandezze sono "bloccate" su valori specifici; non so nulla, però, sulle quantità d’acqua comprese nelle tre fasi, per cui dovrei conoscere almeno due titoli, cioè due rapporti fra la massa in una fase e quella totale. Da questo e dal caso del ghiaccio fondente, quindi, possiamo osservare che, comunque sia il processo, mi occorrono sempre due variabili ad esso inerenti per definirlo.
Definizione di calore specifico
Il primo principio può essere espresso in una forma che non consideri processi finiti, ma variazioni infinitesime delle grandezze coinvolte e che, pertanto, prende il nome di forma differenziale:
Il differenziale dU è perfettamente lecito, in quanto si è visto che l’energia interna è una funzione di stato e la differenza fra i valori nei due punti estremi è , pertanto, ottenibile integrando dU fra di essi; meno corretti sono, invece, i differenziali ¶ Q e ¶ L, perché dipendenti dal percorso e quindi non univocamente integrabili.
Nel corso della trattazione continueremo comunque ad usarli nella notazione suddetta, pur restando coscienti di questa imprecisione concettuale, tra l’altro molto comoda; così faremo anche nell’approccio mediante la forma differenziale intensiva:
La precedente introduzione al capitolo ci serve per passare, ora, a definire un importante grandezza fisica che può essere considerata come la chiave di volta della termologia, ossia il calore specifico.
Esso è definibile sostanzialmente come la quantità di calore necessaria a far innalzare di un grado centigrado la temperatura per unità di massa di una certa sostanza, anche se, per essere precisi occorrerebbe indicare in tale enunciato, l’intervallo dei valori della temperatura che voglio considerare; si è visto sperimentalmente, infatti,
che proprio da tale range dipende l’andamento del calore specifico e che, in generale, esso diminuisce al crescere della massa atomica delle specie chimiche coinvolte.
L’unità di misura del calore specifico C è espressa, nel Sistema Internazionale,
come joule su kilogrammo per kelvin, ossia:
Ricordando l’equivalente meccanico del calore, possiamo determinare, ad esempio il C dell’acqua, che risulta essere C = 4187 J / kg · K nel range da 14,5 a 15,5 ° C.
Un altro fattore determinante nella definizione è il tipo di trasformazione termodinamica che subisce la sostanza, dato che il calore specifico varia assieme ad
essa, e che indicheremo con l nella seguente definizione:
Proviamo, adesso, a definire due utili calori specifici attraverso il confronto di una trasformazione a volume costante e di una a pressione costante.
Scelto un chilogrammo del gas considerato, lo introduciamo in un cilindro chiuso ermeticamente da uno stantuffo e dal cui basamento conduttore sono possibili scambi termici.
Se, tenendo fermo lo stantuffo ( L = 0 ), forniamo al sistema (cioè al gas) una certa quantità di calore Q, essa servirà integralmente ad aumentare l’energia interna e la temperatura, che, vista la definizione generale di calore specifico, saranno correlate dalla relazione:
dove Cv è chiamato, dato il tipo di processo, calore specifico a volume costante, mentre D U e D T rappresentano le variazioni di energia interna e temperatura su un intervallo finito di valori in cui Cv può essere considerato costante; da ciò si vede che l’energia interna è funzione esclusiva della temperatura ed il valore di Cv di ciascun gas espresso nell’unità di misura del S.I, viene calcolato tramite una espressione derivante dalla teoria cinetica :
in cui m è la massa molare del gas, espressa in kilogrammi su kilomole
( kg / kmol) e I è un coefficiente adimensionale che vale 3 per i gas monoatomici, 5 per i biatomici e 6 per tutti gli altri.
Se, adesso, modifichiamo l’esperimento e lasciamo lo stantuffo libero di muoversi, in modo che la pressione del gas resti costante, abbiamo che il calore Q va, in parte ad aumentare l’energia interna, in parte convertito in lavoro di espansione del gas, che, tradotto in formule risulta:
essendo F la forza dovuta all’espansione, p la pressione (considerata qui come variabile), S la sezione dello stantuffo, X lo spostamento di questo dalla posizione iniziale X1 a quella finale X2, mentre V1 e V2 sono rispettivamente i volumi iniziale e finale. Ricordandoci l’equazione di stato di un gas perfetto e il fatto che la pressione P è costante lungo tutto il processo, possiamo scrivere che:
dove R0 è la costante universale dei gas di Boltzmann ( R0 = 8314 J / kmole · K), m la massa molare e T1 e T2 le temperature iniziali e finali. Il primo principio diventa, allora:
in cui Cp è chiamato calore specifico a pressione costante , che, come si noterà, ha un valore superiore a Cv, poiché per innalzare della stessa quantità la temperatura del gas devo compensare il calore convertito in lavoro. Ovviamente, l’espressione di sopra si riscrive:
che prende il nome di Relazione di Mayer.
Qui di seguito sono riportati i valori di Cv e Cp di alcuni noti gas, alla temperatura di 300 K:
Gas |
Cv(J/mol · K) |
Cp(J/mol · K) |
R(J/mol · K) |
elio argon idrogeno ossigeno azoto cloro anidride- -carbonica -solforosa etano ammoniaca |
12,47 12,47 20,43 21,06 20,77 25,75
28,47 31,40 43,13 27,84 |
20,80 20,80 28,76 29,43 29,10 34,71
36,97 40,40 51,71 36,85 |
8,33 8,33 8,33 8,37 8,32 8,16
8,50 9,00 8,58 9,01
|
Entalpia
Abbiamo visto che, se il sistema considerato riceve una certa quantità di calore, essa può essere usata per aumentare la temperatura o per effettuare un certo lavoro. L’energia interna è poco utile in questo caso, perché dipende solo dalla temperatura, allora si definisce una nuova funzione di stato, chiamata Entalpia o contenuto termico H, che corrisponde alla quantità di energia complessiva che il sistema può scambiare con l’ambiente. Ad esempio, in un passaggio di stato da liquido ad aeriforme è il calore latente di vaporizzazione, in termochimica è il calore assorbito o ceduto nel corso della reazione. La definizione formale è:
in cui U è l’energia interna, P la pressione e V il volume del sistema e quando tutte le grandezze sono espresse nel S.I, essa assume l’unità di misura delle energie, il joule [ J ].
In forma differenziale, la definizione diventa:
e, sostituendo nell’espressione del primo principio, si ottiene:
Da qui, con altri due semplici passaggi si arriva all’espressione:
nota come forma entalpica del primo principio della termodinamica.
Da essa possiamo ottenere un importante risultato teorico: se infatti consideriamo una trasformazione a volume costante, abbiamo
mentre per un processo a pressione costante, si ha che
Possiamo, allora, definire il calore specifico a pressione costante come
Per i liquidi e i solidi, che sono incompressibili, l’entalpia e l’energia interna praticamente coincidono, quindi si definisce un unico calore specifico CL, che può essere mediato sull’intervallo di temperature fra cui avviene la trasformazione. Nel caso occorra conoscere i valori assoluti di U e H, si sceglie un riferimento di temperatura, in genere fissato allo zero assoluto ( H(0 K)= 0 = U( 0 K)).