Scritto ad agosto 2020.
Sono stati recentemente annunciati i nuovi standard europei sulla riparabilità. Chi è coinvolto, quali possono essere le conseguenze, e soprattutto, cosa vuol dire riparabile?
Innanzitutto, riparabilità di cosa? Sono coperti gli Energy Related Products, che detta così sembrerebbe voler dire qualunque prodotto, tenendo conto del concetto di energia grigia (che vedremo più avanti). Le categorie di prodotti interessati sono aumentate nel tempo, dagli Energy Using Products della direttiva del 2005, che per intenderci sono alla base dei rating energetici che vediamo sui frigoriferi, ma rimangono dei criteri di inclusione abbastanza stringenti. Perché si applichino gli standard deve trattarsi di prodotti che vendano più di 200 mila unità all’anno, e l’introduzione degli standard non deve causare aumenti di prezzo o ridurre le prestazioni del prodotto, né avere impatti negativi sulla competitività dell’industria europea. In questo caso si parla principalmente di prodotti venduti in Europa, ma non necessariamente prodotti in Europa. Il termine Energy Related Products, comunque, si riferisce a tutti i prodotti che utilizzano quantitativi significativi di energia, o che ne influenzano l’utilizzo. I nuovi standard (si tratta di questi otto CENELEC, da EN 45552 a EN 45559) sulla riparabilità si concentrano però soprattutto sui dispositivi elettronici.
Sono stati svolti studi molto approfonditi sull’intero ciclo vitale dei dispositivi elettronici, e in particolare degli smartphone, tenendo conto dell’impatto ambientale delle singole parti, della loro possibilità di riciclo e smaltimento, e le possibilità di miglioramento materiale. Questo tenendo conto anche delle abitudini di acquisto dei consumatori, e studiando come gli utenti usano i propri dispositivi, ma soprattutto come li cambiano: dopo due anni, quando il telefono precedente funziona ancora, tenendo in casa il precedente.
Immediatamente è emerso che tendiamo a cambiare i telefoni prima che smettano di funzionare, e che il riciclaggio ha effetti modesti sull’impatto sul riscaldamento globale (GWP, Global Warming Potential), mentre ha effetti più significativi sull’esaurimento di risorse e sul rilascio di sostanze tossiche. Il modo migliore di ridurre l’impatto ambientale è dunque prolungare il ciclo di vita dei dispositivi, la media attuale è poco più di due anni, portandola a 3 si ottiene una riduzione dell’impatto sul riscaldamento globale di circa il 30%, portandola a 4 si ottiene una riduzione del 44%. Rivedremo più avanti questa stima, che non tiene conto del consumo energetico dei dispositivi.
Per permettere questo aumento della durata si vuole indurre i produttori a utilizzare parti durevoli e riparabili, ma anche a fornire il supporto software necessario. Inoltre si vuole incentivare il commercio di dispositivi di seconda mano, dopo un’opportuna manutenzione (garantendo quindi la disponibilità di parti di ricambio di qualità), promuovendo il ritiro dei dispositivi usati quando se ne acquista uno nuovo
Più pressante è però permettere di riparare i guasti. Tra i più frequenti ci sono quelli causati da cadute e quelli causati da danni da acqua e polvere. Ovviamente l’impermeabilizzazione di un telefono può costituire un ostacolo alla sua riparazione.
Sono stati quindi stabiliti dei criteri che permettono di valutare la riparabilità di un dispositivo, tenendo conto degli strumenti necessari, della disponibilità delle parti, ma anche dell’esistenza di servizi di riparazione e di informazioni pubbliche su come eseguire manutenzione e riparazione. Questi criteri, assieme al loro algoritmo di valutazione, dovrebbero permettere ai consumatori di scegliere dispositivi più longevi, ottenendo sia un risparmio monetario che un minore impatto ambientale. Al contempo i produttori dovrebbero poter competere efficacemente sulla durata e sull’impatto dei propri prodotti, e dovrebbe crearsi un ecosistema di riparatori e manutentori di dispositivi elettronici, con potenziali impatti positivi sulle economie locali.Fondamentalmente si vuole fare, in modo distribuito e sistematico, quello che da anni fa iFixit per la riparabilità, che infatti è stato coinvolto nel processo, o quello che il Green Electronics Council fa per l’impatto ambientale.
Gli standard europei sono sviluppati da tre organizzazioni, CEN, ETSI e CENELEC. Il CEN (Comité Européen de Normalisation) riunisce le organizzazioni di standardizzazione degli stati membri, il CENELEC (Comité Européen de Normalisation Électrotechnique) e l’ETSI (European Telecommunications Standards Institute) si occupano rispettivamente di elettrotecnica e telecomunicazioni. Tutte e tre le organizzazioni hanno come membri tutti gli stati membri dell’Unione Europea, e vari stati esterni come “affiliate members”. Le organizzazioni di standardizzazione nazionali sono tenute ad adottare standard identici entro sei mesi dall’approvazione della versione europea, mentre vi è una collaborazione con l’ISO (International Organization for Standardization, che non è un acronimo) per evitare la creazione di standard duplicati.
L’iter di standardizzazione è lungo e complicato, anche perché vengono programmaticamente inclusi i principali attori delle industrie coinvolte. In questo caso l’input è partito dalla Commissione Europea, che ha richiesto alle organizzazioni di standardizzazione di produrre standard che favorissero lo sviluppo dell’economia circolare, come previsto dalla Eco-Design Directive del Parlamento Europeo.
La novità di quest’anno sono gli standard sulla riparabilità, in particolare lo standard EN 45554:2020: General methods for assessing the ability to repair, reuse and upgrade energy-related products.
In tutto i nuovi standard sugli Energy Related Products sono otto, e sono disponibili sul sito ufficiale del CENELEC. Il problema è che come per tutte le organizzazioni di standardizzazione l’accesso ai documenti non è gratis per il pubblico, in questo caso si parla di circa €250. Dopo qualche mese diventano reperibili, se si sa dove guardare, ma in questo caso è troppo presto. Mi sono quindi dovuto basare su questo report tecnico del Joint Research Center della Commissione Europea, che si concentra sul caso specifico della riparabilità degli smartphone. Sono 183 pagine, ma ne consiglio la lettura a chiunque sia interessato, soprattutto l’executive summary e i risultati.
Cercando il testo integrale ho comunque appreso una notizia interessante, il BSI (British Standards Institution) si è opposto all’adozione di questo standard sostenendo che non fosse abbastanza chiaro per permettere di valutare la conformità di un prodotto.
Quanto detto nella sezione precedente va visto nell’ottica del progressivo passaggio all’Economia Circolare previsto dal Green Deal Europeo, su cui l’attuale Commissione Europea sta puntando molto.
L’obiettivo principale è rompere la linearità dell’attuale sistema di produzione, che porta da materia prima a prodotto, e da prodotto a rifiuto. Vediamo quindi come dovrebbe funzionare la gestione sostenibile dei rifiuti. Le fasi indicate dall’attuale normativa, sia italiana che europea, sono le seguenti, messe in ordine sia cronologico che di importanza:
In inglese sono note come le 5R: Reduce, Reuse, Recycle, Recover, Refuse.
Meno sinteticamente, si intende Prevenire la creazione di rifiuti, e possibilmente anche di prodotti superflui, Riutilizzare i prodotti (l’esempio classico è il vuoto a rendere), Riciclare (quindi separare i materiali e processarli per consentirne il riutilizzo), Recuperare (compostaggio, termovalorizzazione, etc.), e gestione del Residuo (principalmente discariche e inceneritori).
Tendenzialmente noi comuni cittadini notiamo soprattutto la parte di riciclo, anche perché ormai a fare la raccolta differenziata siamo sostanzialmente costretti, ma le parti di riduzione della produzione e di riutilizzo sono ancora più importanti.
Un concetto fondamentale è la embodied energy, o energia grigia in italiano, ovvero tutta l’energia necessaria al ciclo di vita di un oggetto. Costruire un oggetto richiede energia, farlo funzionare richiede energia, riciclare o smaltire richiede energie. E naturalmente produrre energia ha un costo ambientale.
Nel caso degli smartphone, secondo lo studio del JRC citato in precedenza, il 76% dell’impatto ambientale sul ciclo di vita deriva da materiali e processo costruttivo. Per quanto riguarda il costo energetico dell’utilizzo dei dispositivi, la loro alimentazione è trascurabile, mentre c’è un notevole impatto dovuto alla gestione dei servizi dati, per intenderci, far funzionare le reti mobili e far funzionare i server. Mentre questi costi ambientali sono preoccupanti, non sono influenzati dal ciclo di vita dei dispositivi elettronici.
Di gestione dei rifiuti si parla almeno dagli anni ‘70, ma nel frattempo sono cambiate le tipologie di prodotti da gestire. In particolare l’esplosione dell’elettronica di consumo a livello globale è un fenomeno relativamente recente, e c’è stato un aumento esponenziale sia come volume prodotto che come complessità a livello elettronico.
Grazie all’estrema economicità produttiva dei circuiti integrati e dei transistor vi sono anche stati cambiamenti pervasivi nelle categorie di prodotti già esistenti, come televisori o elettrodomestici, che un tempo erano realizzati con tanti circuiti interconnessi e tendenzialmente analogici, adesso contengono veri e propri computer.
Riparare un televisore a tubo catodico era molto più facile, si parla di sostituire qualche componente elettronico standardizzato, facilmente reperibile e semplicemente saldato su una basetta. L’elettronica moderna è tutta fatta di circuiti integrati, spesso introvabili come parti di ricambio, e montati con tecniche ad alta precisione difficilmente disponibili per una persona normale. Giusto come esempio, la RAM dei portatili Mac attuali è saldata su una griglia di connettori sub-millimetrici. Le RAM tradizionali (ma anche quelle dell’iMac) hanno un connettore in linea standardizzato, e sono sostituibili dall’utente finale.
A livello costruttivo ci sono dei trade off importanti, che negli anni stanno portando a dispositivi meno riparabili. Per esempio si è passati a schermi separati dal vetro, e tenuti assieme con viti, a schermi incollati al vetro. Questo permette di risparmiare preziosi millimetri di spessore, e ha anche dei vantaggi ottici, in quanto l’eliminazione dello spazio tra schermo e vetro riduce molto i riflessi. Tuttavia vuol dire che in caso di rottura del vetro va cambiato anche lo schermo, e viceversa. In alcuni casi, come nel mio Surface, lo schermo e il vetro sono poi incollati alla scocca del dispositivo. Dovrei applicare della nuova pasta termica al processore, ma l’unico modo per farlo è tagliare il vetro.
All’interno delle singole categorie (desktop, laptop, tablet, cellulare) si tende ad assistere a fasi di crescita esponenziale delle caratteristiche tecniche, in cui il ciclo di vita utile del dispositivo tende a essere necessariamente corto, perchè anche se funzionante il dispositivo diventa tecnicamente obsoleto,e a fasi di sostanziale stagnazione, come quella attuale, in cui è possibile continuare a usare lo stesso dispositivo per più tempo.
Secondo lo studio del JRC citato in precedenza, la norma è la sostituzione dei cellulari ogni due anni, conservando il dispositivo precedente (ancora funzionante) a casa, senza smaltirlo né riciclarlo. Il riciclo di uno smartphone può recuperare circa il 5% del suo GWP, Global Warming Potential.
Vediamo quali fattori ostacolano il prolungamento del ciclo di vita dell’elettronica, come questi fattori sono stati valutati negli standard, e come ci si propone di affrontarli.
L’elettronica moderna è estremamente affidabile, senza eventi traumatici sono abbastanza improbabili guasti durante il ciclo di vita utile. Sono invece frequenti perdite di performance dovute a poche parti soggette a usura. L’esempio più ovvio è la batteria, ma anche le memorie sviluppano delle aree usurate, in cui non è più possibile leggere e scrivere informazioni. Questo difficilmente porta a perdite di dati, grazie alla loro natura ridondante, ma risulta in riduzioni nella velocità di lettura e scrittura, perché occorre evitare i settori danneggiati.
Allo stato attuale è difficile che un dispositivo diventi fisicamente obsoleto entro il proprio normale ciclo di vita, qualunque smartphone di fascia alta prodotto negli ultimi 5 anni sarebbe perfettamente in grado di far girare il software attuale. Il problema sono le parti di usura. In particolare può essere molto difficile trovare batterie originali. Sul mio vecchio MacBook Pro, ad esempio, serve un cacciavite speciale per rimuovere la batteria, anche se è facile da trovare. Sui Mac più recenti sono invece incollate.
Quando l’ho sostituita per la prima volta, dopo 4 o 5 anni dall’acquisto, era ancora disponibile la batteria originale Apple, adesso che ne sono passati 9 devo accontentarmi di una copia cinese. Tendenzialmente funzionano, ma non vi sono particolari certezze sulla loro effettiva capacità.
Lo standard EN 45554 classifica i prodotti in base agli strumenti necessari per la loro manutenzione, nell’esempio precedente è necessario uno strumento proprietario, quindi è in classe D. Il mio Surface citato in precedenza non può essere aperto con nessuno strumento, e quindi è in classe E.
Sempre secondo lo studio del JRC, le parti che più frequentemente portano alla fine del ciclo di vita di uno smartphone sono la batteria e lo schermo, renderne facile ed economica la sostituzione dovrebbe avere un impatto immediato.
Riguardo lo schermo, in particolare, ci sono standard di resistenza agli impatti che possono essere utilizzati per valutare la capacità di un telefono di sopravvivere. Inoltre la disponibilità di protettori e cover può portare a simili risultati.
Riguardo le batterie lo standard parla di un numero minimo di cicli di ricarica, variabile in base alla difficoltà di sostituzione della batteria stessa, e di una serie di misure software che permettono di ridurre l’usura, come mantenere la carica tra il 20% e l’80% della capacità nominale.
Altro fattore importante è l’utilizzo di CRM (Critical Raw Materials, materiali non sostituibili), e minerali estratti in zone di conflitto, in particolare il cobalto e i cosiddetti 3TG (tin, tungsten, tantalum and gold), per i quali dall’anno prossimo sarà obbligatoria una due diligence. Sono anche state ristrette alcune sostanze pericolose, come ad esempio l’arsenico.
Supponendo di avere un dispositivo vecchio, ma ancora funzionante, ci possono essere ostacoli software per il suo utilizzo.
Innanzitutto senza aggiornamenti frequenti al sistema operativo si ha una perdita di sicurezza informatica, man mano che le vulnerabilità vengono scoperte e rese pubbliche si provvede alla loro chiusura, ma su un dispositivo non aggiornato rimangono aperte.
Il fattore più immediato è però la perdita di interoperabilità, per uno sviluppatore di software è conveniente minimizzare il numero di sistemi operativi compatibili, e questo include le versioni precedenti di uno stesso sistema operativo.
Gli strumenti di comunicazione moderni sono monopolizzati da poche piattaforme, in mano ad ancor meno aziende. Un telefono senza Whatsapp non è utilizzabile, o senza l’applicazione di home banking della propria banca. Sui computer veri e propri il ciclo di vita software è ormai più di dieci anni, su cellulari e tablet sono utilizzabili solo i dispositivi iOS aggiornati (circa 5 anni) o Android con i Google Play Services aggiornati (molto variabile, di solito sono garantiti 3 anni).
Sono proprio questi i criteri valutati nello standard: la disponibilità di aggiornamenti a 3 o 5 anni dalla messa in commercio dell’ultimo esemplare di un prodotto, la reversibilità degli aggiornamenti (si temono aggiornamenti che “appesantiscano” il dispositivo), la possibilità di installare un altro sistema operativo, possibilmente open source.
Quest’ultima possibilità, da sempre disponibile su tutti i computer, consente di tenere aggiornato il software molto oltre la fine del supporto ufficiale da parte del produttore. Purtroppo al momento è possibile solo sulla minoranza di smartphone Android con il bootloader aperto, e abbastanza diffusi perché ricevano il supporto della comunità.
Oltre alle condizioni pratiche che portano all’obsolescenza dei dispositivi possono esserci ostacoli legali. Varie aziende hanno cercato di arrogarsi il diritto di essere gli unici a mettere mano ai prodotti da loro creati, e in alcune parti del mondo ci sono anche riuscite. In particolare negli Stati Uniti è estremamente facile perdere la garanzia di un prodotto aprendolo, e il DMCA limita fortemente ciò che un utente può fare al proprio dispositivo. Addirittura in Messico è in corso un tentativo di criminalizzazione delle riparazioni fai da te.
In Europa la situazione è ancora in divenire, ma già nel 2019 il Parlamento Europeo ha approvato delle raccomandazioni in favore del diritto a riparare, e al momento non sussistono particolari ostacoli legali. La campagna di riferimento, comunque è Repair.eu.
Cosa possiamo aspettarci, in pratica, dall’applicazione di questi nuovi standard? C’è già un tentativo di creare un dispositivo riparabile, sostenibile, e che non utilizzi materiali affetti da conflitti o sfruttamento: il Fairphone.
Il primo Fairphone è uscito nel 2013, era un telefono di fascia media dal prezzo lievementeelevato, il cui principale difetto era la scelta di un processore poco comune, che purtroppo ha smesso di ricevere aggiornamenti abbastanza alla svelta.
Il Fairphone 2, del 2015, è stato invece il primo dispositivo modulare sul mercato, ed è stato progettato per consentire un ciclo di vita di 5 anni. Ha uno dei processori più popolari dell’epoca, che lo rende compatibile con varie distribuzioni Android e con un paio di distribuzioni Linux. La distribuzione Android con cui veniva venduto è stata aggiornata solo da Android 5 ad Android 7, ma ha comunque ricevuto gli aggiornamenti di sicurezza fino a dicembre 2019. Con altre distribuzioni, come Lineage OS, è possibile l’aggiornamento ad Android 10, che è l’ultima versione.
Un aspetto interessante è la modularizzazione, che permette di scomporre il dispositivo in schermo, batteria, fondo, testa (inclusivo di fotocamera frontale), e fotocamera. Oltre alla riparazione, questo ha consentito di aggiornare le fotocamere. Al momento la fotocamera originale, da 8MP, è disponibile per €20, quella migliorata da 12MP per €45.
La stessa operazione è stata replicata con il Fairphone 3, uscito a settembre 2019. Questo evidenzia però uno dei limiti principali della modularizzazione: l’impossibilità di aggiornare il chipset principale del dispositivo.
Un altro grosso limite è la mancanza di impermeabilizzazione, presente invece su modelli meno etici e riparabili, ma di prezzo equivalente e prestazioni superiori.
Per ridurre il nostro impatto dobbiamo tutti tenere i nostri telefoni più a lungo, al prossimo acquisto potremmo anche avere la possibilità di scegliere in modo informato.
Fin’ora ho cercato di spiegare cosa dicono gli standard, e secondo quale logica sono stati pensati, ma possiamo anche provare a pensare a come le reazioni di produttori e consumatori possano sovvertire le intenzioni della Commissione Europea.
Possiamo immaginare scenari in cui i telefoni di fascia alta hanno un rating di durabilità più elevato, cosa che gli consentirebbe di essere venduti a un prezzo maggiorato. Oppure, similarmente, che un punteggio di riparabilità elevato porti a un prezzo maggiore. Si rischia di ricadere nella casistica descritta dalla parabola degli stivali di Vimes.
Questo è sostanzialmente lo status quo, al momento i dispositivi più durevoli sono i modelli di fascia alta delle principali marche. Sono impermeabili, sono molto diffusi, cosa che consente di trovare una grande varietà di custodie protettive, e ricevono anni di supporto software. L'unico telefono davvero riparabile, il Fairphone già nominato in precedenza, costa circa il doppio di un concorrente con caratteristiche tecniche simili. Anche guardando l'impatto ambientale, la cima della classifica dei telefoni "virtuosi" è dominata dagli iPhone.
(La classifica dei telefoni in base alla valutazione EPEAT)
Il problema degli iPhone, da un punto di vista etico, è che non consentono all’utente di installare ed eseguire software non approvato dall’Apple stessa, una limitazione commercialmente molto profittevole (anche se controversa), ma filosoficamente inaccettabile. Se il proprietario di un dispositivo non può controllare quale software viene eseguito, non è il proprietario, è un servo della gleba digitale.
Se i telefoni attuali vengono sostituiti quando sono ancora funzionanti, ha senso investire nell'aumentare la loro durabilità?
Il ragionamento alla base di questa iniziativa è di impedire ai produttori di utilizzare l'obsolescenza programmata per indurre i consumatori a cambiare dispositivi prima del tempo. Obiettivo con il quale siamo, credo, tutti d'accordo, ma l'unico esempio concreto è l'abbandono dei dispositivi vecchi nelle nuove versioni del loro software.
L’idea di dispositivi riparabili dall’utente finale mi piace moltissimo, ma mi chiedo se all’atto pratico la parte importante non sia semplicemente convincere i produttori a offrire un supporto software duraturo.
Già questo sarebbe un risultato grandioso, anche perché i produttori hanno invece un chiaro interesse economico nell’incentivare continuamente l’acquisto di nuovi prodotti. A tale scopo si inventano funzionalità sempre nuove: schermi curvi, schermi pieghevoli, fotocamere sotto lo schermo, ottiche a lunghezza focale variabile. Tutte cose con un impatto negativo sulla riparabilità.
Quello che mi aspetto è che i telefoni mainstream non vengano modificati particolarmente, ma spero che si sviluppi una gamma di telefoni di fascia media riparabili, confrontabili con il Fairphone, ma che riescano a ridurre i prezzi grazie a migliori economie di scala.